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Sembra di abitare un tempo in cui non si può "staccare"

2020-06-29 17:13

Elisa Mauri, Psicologa

Psicologia,

Sembra di abitare un tempo in cui non si può "staccare"

riconnettersi a se stessi e alle relazioni, (sof)fermarsi. Non c’è spazio per la vita contemplativa, siamo immersi nella prosa, ma ci manca la poesia.

Viviamo in una società fatta di iperconnessioni. La tecnologia ha certamente i suoi vantaggi e il Covid ce lo ha mostrato: con uno smartphone o un computer non serve che tu sia in ufficio in studio a scuola o all’università perché puoi lavorare studiare e formarti seduto comodamente sul tuo divano di casa. Una risorsa in tempi in cui il contatto diretto con l’Altro e gli spostamenti erano proibiti, ma c’è anche una faccia in ombra della medaglia: il telefono suona lampeggia vibra di continuo, il computer è sempre acceso: non ci sono più orari nè giorni festivi o feriali, siamo sempre connessi, sempre reperibili. Ribellarsi a questo status quo non è facile perché se non rispondi al messaggio arrivano le chiamate, se non leggi la mail ti viene sottolineato. Sembra sempre di vivere in uno stato di emergenza, di abitare un tempo in cui non ci si può staccare, disconnettere per riconnettersi a se stessi e agli Altri nelle relazioni, in cui non ci si può (sof)fermare: il filosofo Han direbbe che viviamo in un tempo dove non c’è spazio per la vita contemplativa. Siamo immersi nella prosa, ma ci manca la poesia.

Scrive infatti Han “viviamo in perenne mancanza di tempo. Quasi in apnea, ci affrettiamo per poter fare esperienza di tutto quello che il nostro mondo iperproduttivo ci mette davanti. Accelerare per avere più tempo è diventato l’imperativo della nostra vita. Ma questa epoca dell’affanno, in definitiva, ci rende ansiosi, stressati, disorientati.”

Le persone se si prendono mezz’ora di pausa, se si godono il fine settimana senza guardare la casella di posta, se finiscono al loro solito orario di lavoro anche quando sono in smartworking accusano un pesante senso di colpa. E’ possibile?

Perché a me pare davvero paradossale: devo sentirmi in colpa perché pongo un sano limite, perché mi prendo dello spazio per fare altro e per essere altro.

Oggi ho staccato, sono tornata a casa, nel mio posto del cuore e a pranzo ho conosciuto due signori anziani, che avrebbero potuto essere i miei nonni. In questo ristorante il Covid ha mandato in pensione i menu cartacei - bisognerebbe igienizzarli dopo ogni utilizzo - che sono stati sostituiti con dei QR code da leggere con il tuo smartphone per conoscere il menu del giorno e quindi scegliere cosa ordinare.

In questa coppia però la moglie non aveva il cellulare quindi decide di aspettare il marito che invece ce l’ha uno smartphone, ma non vorrebbe averlo. Il signore si oppone, non vuole leggere il menù col cellulare nè tantomeno vuole imparare a farlo. Mi ha colpito la sua posizione e così abbiamo iniziato a chiacchierare. Loro hanno scelto, consapevolmente, di non far parte della società iperconnessa: lei con la scelta radicale di non avere un cellulare; lui con questi quotidiani atti di protesta e di ribellione direi di resistenza.

Loro sono stati gli unici in tutto il ristorante ad ordinare chiacchierando con il cuoco e facendosi consigliare un piatto da lui.

Quelle acciughe ripiene non avrebbero avuto lo stesso sapore se le avessero ordinate con qualche click.